L’emergenza Coronavirus di cui abbiamo dibattuto a lungo qui e altrove, ha costretto molti lavoratori al così detto lavoro agile. Negli ultimi mesi ho letto abbastanza su questa pratica diffusa all’estero e boicottata in Italia e molte sono le mie suggestioni su questo nuovo modo di percepire il lavoro.
Siamo tutti d’accordo, immagino, nell’affermare che NO quello a cui tutti siamo stati costretti dal virus non è smart working perché di agile ha ben poco. Per quel che ho capito documentandomi, il vero modo di fare smart working, quello che all’estero pare abbiano capito, consiste nel fornire al lavoratore degli obiettivi da perseguire in un arco di tempo la cui gestione è affidata al singolo. Un modello che per carità non sarà perfetto, immagino le call alle 8.00 del mattino o il venerdì alle 17.30, ma che dovrebbe consentire al lavoratore di avere una gestione smart del tempo. Nel mondo ideale il lavoratore non ha vincoli di spazio e di tempo ma una maggiore responsabilità sui risultati. Quello che è accaduto in questi mesi e in generale che accade da sempre nelle aziende dove “si sta in smart working qualche giorno a settimana” sicuramente non condivide questa visione delle cose.
In Italia fino a oggi il telelavoro è percepito come un prolungamento del lavoro in ufficio. Stare al pc tutto il giorno tutti i giorni per almeno 8 ore indipendentemente dalla quantità di lavoro reale che si ha da svolgere, disponibilità totale per le call last minute, senso di colpa per il cazzeggio non autorizzato ma (ATTENZIONE) possibilità di fare la pausa caffè caricando la lavatrice!
Consapevole di essere fra i fortunati, a livello economico e mentale, che ha potuto contare sul suo lavoro per tutto il tempo dell’emergenza sanitaria e oltre, io dico no allo smart working. Sarò uno una voce stonata in un coro di voci bianche, non sarebbe la prima volta viste le mie abilità canore, ma per me è così!
Indentiamoci è comodo staccare alle 18.30 (o quello che è) e non perdere tempo a spostarsi per la città prima di arrivare a casa così com’è comodo mettere a bollire le patate per preparare il gateau fra una call e una mail. Potrebbe nel futuro essere utile poterne usufruire quando si ha bisogno di mezza giornata di permesso per mezz’ora in compagnia del tecnico della caldaia per l’annuale revisione, o potersi permettere week end fuori più lunghi vista la possibilità di avere sempre un pc a portata di mano, o anche solo poter ogni tanto dormire un po’ di più e iniziare a lavorare in pigiama.
Ma la prospettiva di lavorare a casa per sempre trovo sia deprimente. Nessun contatto umano per ore, giornate passate interamente at home come se fossimo ancora in lockdown, nessuna pausa caffè in compagnia, nessuna condivisione di piccoli momenti di vita che sono poi la parte più grande della vita stessa, almeno dal punto di vista di quantità di ore.
Molti stanno parlando dell’effetto capanna, che ci vuole sempre a casa perché ormai incapaci di stare fuori. Poteva essere vero durante il momento di crisi ma ora non è più così. La vita fuori che riprende si percepisce e si sente e stare chiusi significa in parte esserne tagliati fuori e dare libero sfogo a pensieri che riaffiorano, preoccupazioni, giornate che si ripetono tutte uguali come delle precise fotocopie.
E sì, forse lavorare da casa potrebbe permettere a tanta gente di tornare nei propri luoghi di appartenenza e (finalmente?!) liberare alcune grandi città dalla nostra presenza ma anche liberare noi dallo stereotipo delle città avanzate, metropolitane, punti nevralgici di lavoro/movida/vita, centralità che attira a sé ogni essere laureato dai 26 anni in su. E questo sicuramente danneggerebbe l’economia delle grandi città ma magari aiuterebbe quella di altri tanti piccoli centri, in una sorta di riequilibrio generale delle cose.
Ma io non riesco più a immaginare la mia vita senza ufficio, senza colleghi, senza storie sentite e raccontate, senza strette di mano, senza mezzi pubblici, senza bicicletta, senza parolacce perché piove ed era previsto sole, senza aperitivi dell’ultimo minuto, senza quel continuo vai e vieni da Milano a Bari che sempre provoca una fitta al cuore. Senza quell’impagabile momento di felicità estrema, sincera e irripetibile di quando dopo tutto questo, chiudo la porta e giro la chiave e penso “ah finalmente a casa!”.