Spesso mi ritrovo a pensare al tempo. Non solo quello metereologico (è una mania moderna questa, come se conoscere le previsioni ci rendesse più padroni della nostra vita, peccato che ci azzeccano in media quanto l’Oroscopo dI Cioè), ma soprattutto quello reale. Che poi, esiste davvero un tempo reale ed oggettivo? Si, siamo stati bravi e ci siamo dati un sistema numerico anche per questo, con secondi, minuti ed ore segnalati da lancette analogiche o led digitali che ci ricordano quando dobbiamo svegliarci o ci “moralizzano” quando decidiamo di guardare il 5° episodio di fila di Narcos “e poi giuro che vado a letto”.
Ma non c’è nulla di più relativo o meglio personale del concetto e del senso del tempo.
E ultimamente mi perdo nelle riflessioni dedicate a questo tema e mi sono spinta fin qui per scriverne e cercare di dare una sintassi grammaticalmente corretta, si spera, ad un flusso di coscienza.
Con addirittura la velleità di darne una definizione con cui la mia generazione (vabè magari almeno gli amici, non dico proprio tutta tutta) si riconosca.
Partiamo da un presupposto: quotidianamente mi ritrovo a pensare che quelli della mia generazione vivano un tempo fatto di più tempi.
Quello veloce che ti mette ansia, che ti fa dire “sono adulto ormai, devo darmi una mossa, prendere delle decisioni, smettere di comprare t-shirt con cuoricini disegnati sui capezzoli, iniziare a ragionare sulla maternità come un evento non solo possibile ma soprattutto plausibile, imparare a preparare la pasta al forno…”. Ma che ti permette anche il lusso di sprecarlo in domeniche pigre dalla sveglia spenta e i brunch all’ammerigana, che ti fa prendere decisioni nel giro di poche ore, che ti cambia la quotidianità da un momento all’altro, ma sempre alla stessa fermata della 90.
Ed il tempo della lentezza che ti attacca la malinconia addosso, che ti fa pensare che era ieri che ti aggiravi nei corridoi dell’Ateneo, che ti fa guardare le foto dei tuoi genitori da giovani e immaginarteli ora, come tuoi coetanei, e la fantasia si mischia con i ricordi, somiglianze fisiche e caratteriali di cui MAI ti eri reso conto prima diventano lampanti. E un flash ti riporta alla torta per i 40 anni di tuo padre.
Ti vedi a quel tavolo e poi pensi che fra 3 anni li compirai tu. Essì, sono tempi diversi, prima ci si sposava da giovani per sfuggire alle regole di casa, si facevano i figli subito, si cresceva con loro con spensieratezza e tanta incoscienza forse, ma di certo con infinito amore. Noi invece abbiamo studiato per il riscatto del sogno sociale degli anni ’70 in cui hanno creduto i nostri genitori. Quello dei comfort dati per scontato, della settimana bianca e del “laureati e diventa uno importante“.
Abbiamo lasciato casa con una valigia piena di sogni ed incertezze e abbiamo dovuto sudare sette camicie per ottenere un contratto a tempo determinato. Che quando lo abbiamo ottenuto si è trasformato in un precariato con optional. E noi ci siamo ritrovati a chiederci “ma fra 20 anni sarò qui ancora a fare questo lavoro?” facendoci assalire da una leggera ansia.
E poi c’è un terzo tempo, l’adesso, quello che vivi giorno dopo giorno, tentativi di organizzarsi per un aperitivo dopo l’altro, le passeggiate con il cane, il giro di shopping, la fine di un lavoro che adori e l’inizio di una nuova avventura di vita (perchè il lavoro è vita, non ce n’è, ma questo è oggetto di altre e altrettanto intense riflessioni di questo periodo).
Questi tre tempi si mescolano, si fondono, si rincorrono e si inseguono, si intrecciano nello stomaco e attivano (nelle occasioni migliori contemporaneamente, più spesso ad alternanza) cervello, cuore e pancia.
Un mix che può essere esplosivo se non riesci a gestirlo. Se non sei capace di riconoscere estraniandotene una tantum.
Sembra ieri, c’è ancora tempo. Alterno questi due modi di leggere le pagine del calendario da muro che mi ostino a comprare ed appendere. Sono grande, eppure mi sento ancora così una “stagista della vita“
A sto giro spetta solo a me offrirmi un contratto a tempo indeterminato. Qualcosa che sia per sempre. E non parlo di matrimoni, mutui e figli. Ma di decidere chi sei, cosa vuoi, a chi puoi permettere di farti sentire in difetto (se lo sei per davvero) e a chi devi pensare solo fra una badgiata e l’altra.
E ora mi sento pronta a questo. Sarà motivato biologicamente, sarà che un pò di esperienza me la sono fatta, nelle relazioni così come nel lavoro, ma ora io so. So chi sono. Chi sarò quello non lo posso sapere con altrettanta determinazione. Ma di certo voglio che questi 37 anni di vita partecipino tutti insieme, come l’esercito in alta uniforme di un micro principato indipendente o come un gruppo di sartine di una Maison francese 48h prima di una sfilata, alla definizione della persona che sono. La ragazza del Libertà con il meticcio biondo al guinzaglio, la giornalista di moda in volo in prima classe verso New York, il content creator che scrive copy per il servizio carrozzeria più veloce del West.
Non voglio lasciare indietro nessuna parte di me. Voglio portarmi tutto e lanciarlo come fanno i calciatori durante la rimessa laterale verso il futuro.
Perchè quando tutto ti sembra che non abbia più quel senso per cui ti eri dannata l’anima, per cui ci avevi dedicato tutta te stessa negli anni più intensi della tua tardoadolescenza, ecco che capisci che anche quello ha motivo di essere stato se messo in relazione a tutto il resto. E’ proprio vero. E’ esattamente quello che ti dicono nei momenti difficili e tu non ci credi.
Per questo lo scrivo, perchè possa sempre ricordarmene. Soprattutto il giorno in cui compirò i “fatidici” 40 e penserò “Sembra ieri, c’è ancora tempo“.