Il circo colorato e scoppiettante del fashion month ha avuto inizio: si parte con la Fashion Week di New York, seguita da Londra, Milano e infine Parigi. Le capitali indiscusse della moda si contendono lo scettro di “fashion empire”, luogo fisico e no da dove il sistema moda detta le sue tendenze sul resto del mondo. Ma nel corso degli anni le sfilate hanno subito trasformazioni radicali, andando di pari passo con i cambiamenti della società e con una continua propensione all’innovazione, tipica di tutti gli ambiti socio-culturali.
Perché la moda di fatto è un fenomeno culturale, profondamente radicato nella società, che plasma e da cui viene plasmata in un continuo mescolamento, una commistione che da vita ad un ciclico ricorso di tendenze e modi di intendere gli abiti.
Ma quando nasce questa attenzione spasmodica per gli abiti e il momento del loro “debutto in società”? Gli storici della moda concordano nel definire lo stilista inglese Charles Frederick Worth l’ideatore dell’utilizzo delle modelle per mostrare le collezioni. Siamo nell’Ottocento, e per la prima volta una casa di moda assume delle ragazze per “indossare i vestiti da mostrare alle clienti”. Certo siamo molto lontani dal concetto di sfilata contemporaneo, tuttavia la funzione è sempre la stessa: mostrare per conquistare e quindi per vendere.
La platea originaria di queste sfilate era una ristrettissima cerchia di super clienti, le più ricche per intenderci, a cui lo stilista riconosceva l’importanza invitandole a scoprire per prime i nuovi modelli.
Ma non si può ancora parlare di sfilata o “fashion show”: questi piccoli momenti di condivisione, per quanto importanti, non erano ancora arricchiti da musica o scenografie particolari, ma tutto si svolgeva direttamente nelle sartorie delle maison.
La prima a concepire una “sfilata” moderna fu Lady Duff Gordon, costumista e stilista britannica che mise in scena un vero e proprio spettacolo per mostrare le sue creazioni: utilizzò modelle, fece interpretare loro delle pose a ritmo di musica e allargò la platea alle clienti, invitando non solo le più affezionate, per quanto ovviamente tutte rigorosamente della stessa classe sociale e con gli stessi gusti.
Restava ancora uno show per pochi, ma per la prima volta emerse l’intento di uno stilista di dare vita ai proprio abiti inserendoli in uno spettacolo più ampio.
Fino a tutti gli anni ’50, nonostante gli elementi di una sfilata fossero sostanzialmente simili a quelli attuali, come ad esempio l’utilizzo della passerella che da un lato sancisce una separazione fra modelle/abiti e il pubblico e dall’altro definisce una distribuzione dello stesso nello spazio (in prima fila chi conta di più e poi a scalare più infondo i meno importanti), i fashion show sono ancora un momento che riguarda solo chi fa abiti e chi li compra.
A metà degli anni ’60 però, i designer capiscono la necessità di uscire dai loro atelier o dai saloni dei grandi magazzini per dare libero sfogo alla loro creatività, anche dopo la creazione dell’abito. É così che Balmain sfila in una cantina di vini, mentre Pierre Cardin porta le modelle all’aperto e le fa sfilare lungo la Senna, mentre Paco Rabanne sceglie come palco il Crazy Horse Saloon: la moda esce dai suoi spazi canonici e lo fa grazie al racconto.
Un racconto che parte dai vestiti ma coinvolge anche lo spazio in cui sono presentati, si arricchisce con la musica e si colora grazie a scenografie sempre più spettacolari.
Sono gli anni ’90 il momento del boom: le sfilate diventano dei veri e propri show, studiati appositamente, che approfondiscono o delineano i pensiero dello stilista inserendo gli abiti in un contesto molto più ampio. Grazie alle super top model poi, i vestiti diventano icone e le sfilate show di cui si parla in tutto il mondo.
L’obiettivo non varia, vendere abiti. Cambia il racconto che ne si fa, affidato principalmente alla stampa di settore che ha l’onore e l’onere di assistere a questi mega eventi e raccontarli attraverso pagine di giornale e servizi televisivi fatti per aumentare la coolness del messaggio e la desiderabilità del capo. Un mix perfetto di esclusività e voglia di vendere il più possibile.
Seguono gli anni di grandi show tutt’ora limpidi nei nostri ricordi, come la sfilata di McQueen del ’99, ma siamo ancora in un’epoca pre-social media, e i brand hanno ancora il controllo totale delle immagini e delle riprese video che venivano rilasciate, il che rendeva gli spettacoli più elitari ed esclusivi di quanto non siano ora. Di fatto la moda era ciò che i brand e i media volevano e dicevano fosse la moda.
Poi l’arrivo del digitale ha cambiato tutto. L’accesso alle sfilate si è aperto a nuovi attori, non esclusivamente impegnati nel settore dei media: è l’epoca dei blogger prima e influencer poi che attraverso i loro cellulari hanno portato la moda fuori dal circolo ristretto dei pochi privilegiati spettatori di una sfilata. La moda è diventata POP nel senso più originale del termine: ammirata e desiderata da tutti, indossata ancora da pochi, pronta per essere venduta a chiunque ne condivida il sogno.
L’epoca Covid ha determinato il definitivo sopravvento del digitale, che, con un’accellerata impressionante e forzata, ha accompagnato i brand nell’epoca delle dirette streaming fino ad arrivare agli NFT. Un pubblico sempre più ampio, forse meno esclusivo, ma decisamente più promettente. Gli stilisti ormai non vendono più solo abiti ma una vera e propria visione del mondo. E condividerla con più gente possibile è l’unico modo per far arrivare il loro messaggio oltre gli scaffali di una boutique. Perché la moda è cultura oltre che semplice business. Ora sempre di più.