Andrà tutto bene o andrà tutto in mona?

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Andrà tutto bene o andrà tutto in mona come ha detto il Poyana? Mi alzo al mattino e mi dico: se Conte non dovesse trovare accordi con l’Europa chi ci salverà questa volta?

Nel frattempo mio figlio chiede di giocare a macchinine, chiudo automaticamente il cassetto dell’ansia e simulo disinvoltura durante la gara tra Saetta Mc Queen e Jackson Storm. Attività che, inesorabilmente, sottrae tempo al lavoro, alla cucina, al mettere in ordine compulsivamente il cassetto delle posate, a riordinare i libri. Per colore o per casa editrice? Per autore? Per genere?

Cazzo come potrà andare tutto bene se già il parquet di casa è un disastro di solchi lasciati dalle macchine sportive?

Siamo partiti di spinta con provviste di prosecco e gin. Soliti lussi da primo mondo.  Ho scritto liste infinite di cose da fare in quarantena (o cinquantena? Sessantena?) pensando che il tempo che avrei avuto a disposizione sarebbe stato infinito e infinitamente produttivo. Ho preso spunto e schedulato tutto. Ho un intero archivio di lavoretti creativi da fare con i bambini. E alla fine non ho fatto proprio niente. Nemmeno farmi crescere le unghie per farmi finalmente la manicure con i pallini.

Ma purtroppo (purtroppo?) mio figlio mi costringe a vivere. A essere presente. Ad alzarmi dal letto la mattina, perlomeno.

Ecco, detta così sembro una che vive in pigiama con le tapparelle abbassate dal 24 febbraio.  Ma chi mi conosce lo sa che l’iperbole è la mia cifra stilistica. Una volta pensavo che una pellicina sull’anulare mi avrebbe condotto in breve tempo a una fatale, nonché dolorosissima, cancrena.

Fatto sta che la curva della voglia di vivere e di fare è ai minimi termini per quanto mi riguarda.  Questo tempo non è un regalo, è un obbligo. Ho letto un articolo di un filosofo che diceva appunto che la sua vita in quarantena assomiglia molto alla sua vita prima della quarantena, ma con un altro sapore. Il sapore della mancata scelta. Non possiamo scegliere di non uscire, ma siamo obbligati. Capirai che intuizione.

Ma cosa mi manca della vita precedente? La routine dell’ufficio? Il peso della gestione domestica? Il doversi inventare scuse per declinare inviti? Incastrare l’agenda per vedere le amiche?

Sinceramente? Non lo so. Ma come tutti, ne ho le palle piene naturalmente.

Come la maggior parte dei radical chic first world problems oriented, sto grattando il barile per capire che cosa invece di buono posso avere da questa esperienza, che cosa posso mettere via come insegnamento per il futuro. Si, quelle cose tipo “traiamo il meglio da ogni circostanza”.

La conclusione cui sono arrivata è molto sdolcinata: ho la fortuna di vedere sotto i miei occhi il miracolo della vita, nonostante dalla mia finestra ci siano solo pochi alberi in lontananza e il seme dell’avocado non sia germogliato.

Quello che vedo sotto i miei occhi non è solo un bambino di 3 anni, ma un miracolo della natura. Ogni giorno cambia, cresce, ogni giorno aggiunge parole e frasi al suo vocabolario.

Assorbe veramente in maniera impressionante tutto quello che faccio, quello che dico, quello che penso e quello che sento, anche se non lo dico. Fa quasi paura eh. Perché mai come ora sto realizzando quanto pesi veramente quello che sono, quanto il mio modo di essere si sta riversando su di lui e quanto questo contribuirà allo sviluppo della sua identità personale.

Cosa si ricorderà mio figlio di tutto questo? Si ricorderà di più dei cazziatoni o di quando ci mettiamo al buio a guardare fuori dalla finestra? Si ricorderà di quando la mamma non ha voglia di alzarsi o di quando andiamo sul terrazzo condominiale a fare le bolle di sapone? Si ricorderà di mamma e papà sempre al telefono o del campo di calcio improvvisato in soggiorno? E per lui come andrà? E soprattutto come sta andando? Siamo abbastanza bravi? Abbastanza creativi? Propositivi? Partecipativi? Stiamo abusando di cartoni animati? Ecco, mi torna l’ansia. Ma per fortuna devo andare a ritagliare delle sagome di lumachine di carta e non ci penso più.

Mi dispiace non avere una risposta universale per tutti, non ho la rivelazione su quale sia la chiave per attraversare questo momento. Mi pare ovvio. Io, di base, sono incazzata. Ma mi domando se il senso della vita non sia veramente nell’essere proiettati verso l’altro piuttosto che su noi stessi. Questo, speriamo di ricordarcelo tutti.